Stava facendo il suo turno da promoter, reparto elettrodomestici.
Otto ore in piedi, con la polo aziendale e il sorriso incollato come l’etichetta promozionale sullo scaffale del frullatore.
Era lì per spingere un brand che la gente non conosceva ma che costava meno, quindi: perfetto bersaglio per clienti in cerca di sfogo.
Lui è arrivato di scatto, sguardo da chi ha fretta e superiorità da outlet.
Ha iniziato a farle domande a raffica, ma con quel tono fastidioso da interrogatorio sarcastico:
“E cosa ha in più questo?”
“E perché dovrei fidarmi di lei?”
“Lei lavora per il negozio o per la marca?”
“Sì ma tanto sono tutti uguali, cambia solo la pubblicità.”
Lei ha mantenuto la calma.
Ha risposto a tutto con competenza, ha ammesso i limiti del prodotto dove c’erano, ha spiegato i punti di forza dove poteva.
Ma lui voleva solo sminuirla.
Non stava cercando informazioni: stava cercando conferme che fosse lì per “riempire uno spazio”, non per sapere davvero.
A un certo punto lui ha detto, con una risata piccola e tossica:
“Dai su, lo sa anche lei che queste robe le danno da dire, mica le crede davvero.”
Lei non ha alzato la voce.
Non ha girato gli occhi.
Ha solo risposto:
“Io non vendo illusioni. Presento quello che conosco. Se poi non le va bene, è libero di scegliere altro.”
Lui ha sbuffato e se n’è andato.
Non senza aggiungere un “comunque il servizio qui lascia a desiderare”.
Quello che non aveva visto è che dietro, a un paio di metri, un uomo distinto, giacca grigia, cartellino sottile con scritto “direzione”, aveva assistito a tutta la scena.
Aveva finto di guardare i robot da cucina, ma aveva ascoltato tutto.
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