Ore 7:38. Treno regionale. Vagone quasi pieno.
Gente con l’occhio spento e il caffè ancora in fase di download.
Entrano due.
Lui giacca e cravatta, borsa rigida.
Lei giacca imbottita, zaino, occhiali da soleù.
Si siedono uno di fronte all’altra, stesso finestrino, ma con intenzioni opposte.
Lui si sistema, tira fuori il tablet.
Lei si slaccia la giacca, sventola un po’ con la mano.
Poi succede:
il finestrino è leggermente aperto.
Lei si alza e lo chiude.
Tre secondi dopo, lui lo riapre di due dita.
Silenzio.
Passano due fermate.
Lei si alza di nuovo.
Richiude.
Più deciso.
Si siede senza guardarlo.
Lui, senza fiatare, lo riapre.
Un gesto lento, educato, ma passivo-aggressivo come un cucchiaino che sbatte nel cappuccino.
Poi succede l’incontro verbale.
“Mi scusi, ha freddo?”
“No, ma ho mal di gola.”
“Ah, ok. Perché io con l’aria chiusa mi intossico.”
“Meglio tossire che perdere la voce.”
“Dipende per chi.”
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