Gelateria.
Mezzanotte di un normalissimo giorno infrasettimanale, ci avviamo alla chiusura. Ho appena finito di impilare tutte le sedie esterne, mi carico in braccio la prima fila per portarla dentro al locale e sento una voce maschile: “Ciao, siete chiusi?”
Classico, neanche mi stupisco più.
Mi giro e vedo un uomo sulla cinquantina, di stazza non indifferente e, dietro di lui, tre bambini e una donna.
Non faccio in tempo a rispondere che lui continua: “Facciamo in tempo per un gelatino? Andiamo via subito!”
Indosso il sorriso migliore che io possa trovare: “Ma certo, entrate pure! Scusate per le sedie e i tavoli in mezzo al locale, stavamo chiudendo.” Non ricevo risposta.
Entrano e si dirigono al banco, dove li aspetta la mia collega.
Mentre decidono cosa prendere, io continuo con la chiusura, lasciando perdere le sedie impilate fuori e cominciando a lucidare i vetri.
Sono abbastanza veloci, li vedo pagare e dirigersi all’uscita con i gelati. Perfetto, mi accingo a uscire per prendere le sedie che ho lasciato fuori e mi si para davanti la seguente scena: i bambini seduti a terra, davanti all’entrata, a gambe incrociate, la donna appoggiata al muro e il padre SEDUTO SOPRA A UNA PILA DI SEDIE (parliamo di 5-6 sedie da giardino, quelle di plastica, una sull’altra).
Le gambe della sedia alla base della pila sono allargate e posso chiaramente sentirle urlare.
Mi avvicino, cercando di reprimere l’imbarazzo che sto provando e suggerisco di sfilare le sedie, almeno possono sedersi tutti (ed evitare che si frantumino).
Lui mi guarda dall’alto del suo trono ed esordisce: “No grazie, va bene così.”
Io continuo: “Come vuole, più che altro non vorrei si rovinino le sedie, sono abbastanza fragili.”
“Tranquilla, mi tengono, guarda!” e comincia a SALTELLARE SULLE SEDIE, spostando il peso in alto e in basso per dimostrarmi che le sedie lo reggono.