Ero in fila in comune, c’erano due anziani davanti a me. Stavano aspettando da più di un’ora, roba semplice: un certificato e un duplicato della carta d’identità. Insomma, la normalità.

A un certo punto esce l’impiegata. Faccia scazzata, telefono in mano, già scocciata prima ancora di parlare. E parte subito male:

«Sono io in ritardo, ma abbiamo poco tempo. Se non facciamo in tempo vi devo mandare via, ho altri appuntamenti!»

Io e gli altri in fila ci guardiamo. Lei è in ritardo, ma la colpa è loro? Boh. Gli anziani, pacifici, provano a far notare che erano lì da un pezzo. Risultato? L’impiegata sbuffa, prende i documenti e sparisce dentro l’ufficio.

Dopo un po’ riappare con dei moduli incompleti e li butta sul bancone.

«Compilate questi, ma fate in fretta.»

I due si mettono a scrivere, lei nel frattempo tamburella le dita sullo sportello, guarda l’orologio, tutta impaziente. Poi, mentre si gira per rientrare, mormora tra sé e sé, ma abbastanza forte da farsi sentire:

«Sempre la solita storia… bisogna stare dietro a chi non è smart.»

E niente, lì non ci ho più visto.

«No, signora Rossetti» le dico. «Lei non può mandare via due persone perché è in ritardo. Ogni cittadino ha lo stesso valore. Non è che si diventa meno degni di essere serviti perché non si è “smart”.»

Lei mi fissa. Incrocia le braccia, cambia tono, più spavalda:

«E quindi? Io faccio quello che voglio. Tanto è la sua parola contro la mia, non ci sono prove.»