C’era sempre.
Sempre pronto, sempre un po’ troppo preparato, sempre con il tono giusto per farti sentire in ritardo anche se eri in anticipo.

Parlava in modo gentile, ma con quella punteggiatura invisibile fatta di sospiri, correzioni mascherate e frasi tipo “no, perché io quando l’avevo già fatto in consulenza a Ginevra…”.

Non sabotava nessuno, per carità.
Era peggio: ti spiegava come migliorare.
Anche quando nessuno gliel’aveva chiesto.

Se finivi un lavoro, lo commentava con:

“Molto bene, davvero.
Sai che si poteva fare anche così?”

Sempre un anche, mai un invece.

Una volta, durante una riunione, qualcuno propose una sua stessa idea.
Lui si limitò a dire:

“Giusto. L’avevo detto anch’io nel brainstorming di marzo, ma fa niente.”
(Marzo. Sette mesi prima.)

Tutti lo sopportavano con educazione.
Qualcuno con auricolari invisibili.
Io con una certa distanza emotiva.

Poi è arrivato il giorno del bando interno per una posizione nuova.
Più responsabilità, stipendio appena ritoccato, ma era chiaro che si trattava di prestigio più che soldi.

Lui ha subito dichiarato interesse.
Curriculum aggiornato, lettera motivazionale in inglese, presentazione a colori.
Perfetto.

Io non ho detto nulla.
Ho solo lavorato.

Il giorno dei colloqui, lui era in sala d’attesa già mezz’ora prima.
Io sono entrato all’orario assegnato, senza niente in mano.

Tre giorni dopo, la mail.