Aveva prenotato da settimane, ma continuava a rimandare.
“Ho un impegno.”
“Non sto benissimo.”
“C’è sciopero, forse.”
Lo sapevamo tutti che non era il traffico, era la paura.

Alla fine si è presentato.
In orario, con passo lento e lo sguardo di chi entra in una sala operatoria, non in uno studio con poster motivazionali sulle gengive.

Si è seduto in sala d’attesa, ma non sul divano.
Sul bordo.
Come se la poltrona potesse morderlo.

Quando lo chiamo, si alza facendo finta di stirarsi.

“Che bello, oggi solo un controllo, vero?”
Annuisce troppo, ride nervosamente.

Lo faccio accomodare.
Gli spiego che vedremo solo com’è la situazione.
Niente trapani, niente sorprese.

Mi guarda.
Dice:

“Solo se vedo il riflesso del trapano… me ne vado.”
Sorride. Ma sta sudando.

Apro la cartella.
Gli parlo di placca, piccole carie.
Lui cerca di distrarmi parlando di geopolitica.

“Sa che in Finlandia hanno meno dentisti ma più sorrisi?”
Io no, non lo sapevo.

Inizio a controllare.
Basta uno specchietto e già stringe i pugni.
Ogni tanto mi interrompe con un:

“Tutto ok?”
“È normale che si senta freddo?”
“Lo specchio è disinfettato, vero?”

Sì.
Sì.
Sì.

Alla fine non tocchiamo nulla.
Gli spiego che ci sono due carie piccole, niente di urgente, ma meglio intervenire presto.
Lui annuisce come se stessi leggendo la sentenza.

“Va bene. Allora ci penso. Ma oggi… già essere venuto è stata una vittoria.”

Mi stringe la mano due volte.
Mi ringrazia come se gli avessi tolto un peso dall’anima.